Italia & Libia. "Quello strano traffico di armi verso Tripoli che passa per l'Umbria"
Oggi alle 9.06
Armi per alimentare le guerre africane e tangenti su tutti gli affari". Il settimanale l'Espresso ha dedicato, qualche giorno fa, la sua principale inchiesta alla Libia, accusandola di "Doppio gioco" e mettendo Silvio Berlusconi e il governo italiano in ancor più gravi ambasce dopo le critiche piovute per gli accordi con Gheddafi e alla vigilia del viaggio a Tripoli portato a compimento domenica scorsa. Pare che le diplomazie dei due paesi abbiano parlato anche di questa vicenda che pende davanti alla magistratura perugina.
05 Settembre 2009 -- [Grazie a Elio Clero Bertoldi] -- L'aspetto che lega l'inchiesta all'Umbria è il processo aperto dalla Dda (direzione distrettuale antimafia dell'Umbria) sulle armi che, un gruppo di imputati avrebbero venduto ad un colonnello libico. Questa inchiesta partita da Terni - ad opera dei carabinieri della compagnia e del gruppo che indagavano inizialmente su un traffico di hashish - è arrivata davanti al Gup, di fronte al quale due dei coinvolti hanno risolto i loro guai con un rito alternativo e altri quattro sono stati rinviati a giudizio.
A guidare l'inchiesta, partita nel 2005, il pubblico ministero Dario Razzi. Secondo "L'espresso" l'inchiesta avrebbe sfiorato l'entourage e la nomenklatura più vicina a Gheddafi. Il contatto del gruppo italiano in Libia è, spiegano le indagini, il colonnello Tafferdin Mansour, alto ufficiale del settore approvvigionamento dell'esercito libico, che secondo il settimanale sarebbe vicino al capo di stato maggiore generale Abdulrahim Ali Al Sied. I libici vengono da venti anni di embargo e sono affamati di armi, tra l'altro. Cercano, in particolare, apparati per modernizzare i carri armati T72, elicotteri da combattimento, missili terra aria di ultima generazione. Ma anche rinnovare le dotazioni di armi tradizionali.
E al posto di vecchi fucili ordinano mezzo milione di Ak47 (il kalashnikov) e dieci milioni di proiettili. Gli esperti sostengono che sono una quantità di gran lunga superiore alle necessità dell'esercito libico. E in effetti in una intercettazione, che risale ovviamente all’epoca delle prime indagini, i carabinieri di Terni scoprono che, quelle armi, i libici "le vogliono regalà a destra e a manca, capito?". Insomma almeno parte della commessa doveva finire a stati e staterelli africani o a movimenti indipendentisti dell'Africa.
Uno dei coinvolti italiani parte per Tripoli e a Fiumicino, tra i bagagli, gli scoprono un campionario di armi. Fanno finta di nulla, i carabinieri, e mettono il sospetto (un ternano) ancor più sotto controllo. Gli investigatori umbri scoprono così non solo che i fucili arriveranno dalla Cina, ma che per concludere l'affare (i kalashnikov verranno pagati 85 dollari al pezzo e rivenduti a 136 dollari), il gruppo italiano dovrà pagare mazzette. Al colonnello Mansur (dovranno versare 250mila dollari e le rette del figlio che studia in un college inglese), altri 250mila dollari dovranno finire ad un ingegnere libico incaricato dagli acquirenti di valutare bene la bontà dell'acquisto. E nell'affare, oltre ai mitragliatori e alle munizioni, entrano anche 250mila pallottole di gomma, 750 granate lacrimogene, scudi e corpetti protettivi in funzione anti-sommossa.
Da intermediario tra gli italiani e l'esercito libico funge - scopre la Direzione distrettuale antimafia di Perugia - Khalked K. El Hamedi (cognato di uno dei figli di Gheddafi e al tempo stesso figlio del generale Khweldi El Hamedi, uno dei membri più influenti del Consiglio del comando della rivoluzione). L'affare è in dirittura di arrivo ma prima che le armi possano giungere a destinazione, nel febbraio del 2007, scattano gli ordini di custodia cautelare in carcere per gli italiani. Uno solo resta libero perché si trova in Congo. Nel giugno scorso due imputati hanno patteggiato una condanna a 4 anni ciascuno. Gli altri quattro compariranno davanti ai giudici del tribunale a breve. Non avendo giurisdizione sulla Libia e mancando accordi bilaterali i coinvolti libici nella vicenda escono del tutto "illesi" dall'inchiesta
sabato 5 settembre 2009
di Roberto di Nunzio
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